«Roma sotto il giogo nazista»
Una serata speciale, densa di emozioni. Il libro di Enzo Bernardini ed Emanuele Stolfi, “Roma sotto il giogo nazista”, presentato nel Salone del Circolo, ha richiamato una nutrita platea, interessata alle vicende dei mesi terribili dell’occupazione tedesca della Capitale d’Italia. Gli autori hanno avuto un’idea geniale: intervistare i protagonisti. Le parole di questi non sono inventate: raccontano con estrema precisione quello che avvenne.
Tra i presenti, con il presidente onorario dell’Aniene, Giovanni Malagò, che nel suo intervento ha ricordato come fosse Roma allora, l’avvocato Luca Montezemolo che non solo ha elogiato il libro che, a suo avviso, «ha tre grandi meriti, con Roma che ha mostrato una grande resistenza», ma che ha ricordato le gesta di suo zio, il colonnello Montezemolo che aveva assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Corpo d’armata. «Mio zio è morto da eroe – ha dichiarato Luca – e dopo la prigionia in via Tasso è stato ucciso alle Fosse Ardeatine».
Pubblichiamo l’intervento di Gianni Letta che, impossibilitato ad essere presente, non ha fatto mancare il suo pensiero sul libro.
«Comincio con il dar ragione ad Aldo Cazzullo che nella prefazione definisce il libro “Bellissimo” e ne augura la diffusione nelle scuole.
Il libro ha per sottotitolo “Interviste immaginarie a protagonisti (veri) di un’epopea”, ma non sono interviste immaginose o fantasiose, sono un espediente narrativo che non sposta nel romanzesco le vicende ma le rende drammatiche, usando i modi di esprimersi e gli elementi fattuali rigorosamente attinti da libri e memorie verificate.
Per questo ha ragione Cazzullo in entrambe le sue valutazioni. È bellissimo: lo è anche dal punto di vista letterario e della validità storica, perché non c’è una sola pagina di questo volume che non abbia solide fonti. È adatto alle scuole, sin dalle medie inferiori oso dire io, perché è insieme sintetico, ma non ha nulla dell’angustia espressiva di un riassunto o della prosaicità di un bigino.
Introduce in un dramma.
E quali sono le caratteristiche di questo dramma?
Roma poteva essere salvata da quello che gli autori definiscono con precisione storica e pertinenza linguistica “il giogo nazista”?
La risposta – credo – debba essere di due tipi. Una filosofica, l’altra storica, basata sugli elementi che con grande cura Bernardini e Stolfi espongono con la voce dei protagonisti.
Dal punto di vista filosofico e morale la risposta deve essere per forza “sì”. Roma poteva e doveva essere preservata da questo giogo. Non esiste fatalità nella storia, non ci sono destini inesorabili come nelle tragedie greche. E l’evidenza morale di come gli occupanti nazisti avrebbero esercitato il loro dominio dice che era un dovere di chiunque avesse responsabilità evitare lo scempio della libertà e la razionalmente non solo prevedibile ma sicura deportazione degli ebrei. Da un punto di vista storico, la risposta è terribile ma inevitabile. Il disfacimento morale, la tempra furbastra della classe dirigente fascista, la inadeguatezza della monarchia e delle alte gerarchie militari non lascia adito a dubbi.
Si ripetesse mille volte una situazione simile, sarebbe finita così.
Il pressappochismo narcisistico e vile dei protagonisti viene fuori in pieno. Emerge anche un’altra evidenza: agli alleati non importava gran che di preservare Roma. Giustamente non si fidavano di coloro che fino a poco prima erano stati nemici poco inclini alle considerazioni umanitarie, e fornirono a Badoglio e ai generali indicazioni generiche della volontà di salvare Roma, più che altro – ritengo – per fornire un alibi morale a costoro, i quali nel momento della prova esibirono un istinto alla loro propria sopravvivenza più che onore patrio.
Emerge una cosa importantissima da questo libro. La domanda è quella che pone Ernesto Galli della Loggia. L’8 settembre che ebbe come esito il “Tutti a casa” dell’indimenticato film – come scrivono gli Autori – di Luigi Comencini (1969) e il giogo nazista su Roma è la data definitiva della “morte della patria”?
Su questo il dibattito non si è mai interrotto, e non intendo certo risolverlo io in due battute. Ma questo volume fornisce elementi per non confondere lo “Stato in frantumi” con la distruzione del tessuto umano e sociale che è quello che alla fine costituisce la patria.
“Stato in frantumi” è la definizione fornita da Bernardini e Stolti. Non sono solo le istituzioni a liquefarsi, ma esse semmai si polverizzano per la decomposizione vergognosa, prima spirituale e subito dopo operativa, delle autorità statali. Dalla monarchia fino al governo. Emblematica è la frase che il libro riferisce.
Nel momento decisivo, in cui bisognava decidere se opporsi all’occupazione manu militari da parte delle truppe naziste, «Badoglio dormiva» (pag. 43, testimonianza del generale Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito) e aveva dato ordine di non essere svegliato prima delle cinque per poi darsi più comodamente alla fuga.
Se si dorme in quelle ore, e i subordinati d’alto grado non osano svegliare il capo, vuol dire che si è morti. Ma il sentimento di appartenenza del popolo, l’ethos della nazione non è andato in frantumi, non morì in quei frangenti.
Parlo proprio del popolo romano. Fu sommerso dalle rovine dello Stato, fu calpestato dai nazifascisti, non si manifestò in una insurrezione popolare come a Napoli e come nelle città del Nord, ma, pur nella reazione lenta che l’intorpidimento della coscienza di vent’anni di fascismo ahimè condiviso aveva infuso negli animi.
Tuttavia dentro questa apparente indifferenza vibrava una fiammella di memoria, i romani esercitarono la loro virtù drammaticamente ironica di non credere mai che la storia sia finita, misero in campo la loro arte di preservarsi dall’assimilazione con il nemico occupante, resistettero e mai dettero modo che si sarebbero conformati alla maniera di essere e di intendere la vita degli occupanti e dei capi fascisti. E questa ironia spesso amara, mai superficiale, ha preservato e preserva questo popolo – almeno in quei frangenti – dal seppellire l’idea e la fede nella patria.
C’è una frase molto illuminante che nel libro il feldmaresciallo Kesselring pronuncia: «Tutte le volte, che nel corso della guerra mi trovai a passare per Roma, feci sempre una medesima considerazione: la città, il ritmo di vita dei suoi abitanti, davano chiaramente a vedere che non era diffusa, tra la popolazione, l’idea che l’Italia fascista fosse, assieme ai suoi alleati, coinvolta in una “guerra totale”» (pag. 60).
Questa è la forza dei romani. Conservano sempre una via di fuga interiore, una uscita di sicurezza, per usare un’espressione di Ignazio Silone, rispetto al totalitarismo di qualsiasi potere.
Per dir questo carattere pigro dei romani che diventa capacità di resistenza alla seduzione gli autori fanno pronunciare a Sandro Pertini il giudizio di Giorgio Amendola: «La grande maggioranza della popolazione era attesista (scrive proprio così: attesista), decisa a lasciar passare le settimane e i mesi in attesa degli Alleati senza farsi trascinare in faccende rischiose.
Perciò nessuno parlava e tutti, tranne qualche spregevole eccezione, si facevano i fatti propri. Se poi nasceva il problema di aiutare un italiano, un patriota, un soldato a nascondersi per sfuggire alla persecuzione e all’arresto, non si tiravano indietro, e molti cittadini romani furono trascinati così, senza averlo deciso deliberatamente, nel vortice della lotta clandestina» (pag. 82).
Lotta clandestina! Prima di entrare in questo capitolo non posso non constatare come sia dedicato nel libro, e andrebbe ricordato di più, il sacrificio dei carabinieri, disarmati e deportati nell’ottobre del 1943. C’è una parte dello Stato allora che resistette, e non proprio una parte marginale. Ed è su queste basi che si ricostituirà l’ossatura di una sicurezza fondata su valori democratici assai presto, e ancora a guerra in corso.
A proposito di lotta clandestina, e delle due anime che ne costituivano il nerbo, gli autori affrontano la questione che divide ancora oggi: l’atto di guerra (come l’ha definito la Cassazione nel 2001) di via Rosella e la atroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine.
Quell’atto di guerra voluto ed eseguito senza informare il comitato di liberazione nazionale e condotto dai comunisti in particolare del Gap, gruppi armati patriottici, resta controverso. Gli autori usano le parole del socialista prof. Giuliano Vassalli per contestare ai comunisti l’intenzione attraverso simili atti di prendersi l’egemonia della resistenza e quindi del futuro del paese.
Cazzullo cita Giorgio Bocca, il quale giustifica e spiega: «In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglia per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce» (pag. 12). Ma forse aveva ragione Vassalli. Non era un prezzo per la vittoria (infatti ormai gli alleati stavano per arrivare, anche se in quel momento “spiaggiati” ad Anzio) ma per la “loro” preminenza, loro dei comunisti. E poi questa idea di essere sopra quanto a coscienza e a moralità al popolo, che ha bisogno della pedagogia delle rappresaglie, non so quanto sia morale e giusta.
Non pretendo di aprire un dibattito su questo, non ho le armi dello storico. Ma sono circostanze che fanno pensare.
Un altro capitolo è da considerare per analizzare la capacità di resistenza del popolo romano. La presenza del papato a Roma come surrogato della presenza dell’autorità civile italiana.
E non solo del papato genericamente inteso, ma proprio della persona di Pio XII, in quei frangenti sostenuto da monsignor Montini. Due volte nel libro è scritto a proposito di Papa Pacelli che fu davvero, secondo Roosevelt, “Difensor civitatis” (pag. 93).
E credo che il tempo e la possibilità di attingere gli archivi vaticani come promesso da papa Francesco sempre più metterà in luce questo fatto, rischiarato proprio di recente in un convegno tenutosi alla casa generalizia dei gesuiti.
I suoi sforzi per difendere Roma furono premiati, allorquando il 4 giugno 1944 le forze tedesche si allontanavano dalla città senza mettere in atto i propositi di distruzione che avevano manifestato.
Nei giorni seguenti, il popolo romano, senza alcuna distinzione di ceto e di idea politica, si riversò, più volte, in massa in Piazza San Pietro per esprimere tutta la sua gratitudine per colui che acclamava come Padre e Defensor civitatis, Difensore della città».
Gianni Letta