“Mio fratello Carlo”: il libro di Enrico Vanzina
Giovedì 12 settembre alle ore 18.30 presso il Circolo Canottieri Aniene sarà presentato il libro di Enrico Vanzina “Mio fratello Carlo”. Eccone di seguito un’anticipazione.
«Ricevetti una telefonata. Era mattina? L’ora di pranzo? Il primo pomeriggio? Non lo so, quel momento ho voluto cancellarlo dalla mia coscienza. A chiamarmi – da Porto Rotondo, in Sardegna, dove si trovavano per il week-end – era stata Lisa, la moglie di Carlo. Piangeva, spaventata. Mi disse tra i singhiozzi: «Carlo ha appena fatto una lastra al polmone qui a Olbia. Ci hanno detto di correre subito a Roma dai nostri medici di fiducia per una Tac. Sembra che abbia il cancro. Tra mezz’ora abbiamo l’aereo».
Il cancro. Una parola spaventosa che, quando echeggia, paralizza. E infatti mi paralizzò. Ero alla finestra. Sotto di me vedevo la spiaggetta dell’hotel dove, questo lo ricordo, alcuni ragazzi ridevano, correvano, si tuffavano in acqua. Proprio quello che uno sceneggiatore avrebbe inventato in un film. Fuori dalla finestra, la vita; dentro, la paura della morte. (…)
LAWRENCE D’ARABIA
Ho sempre pensato che Carlo fosse come il protagonista di un film inglese. Un po’ Lawrence d’Arabia, che attraversa stoicamente il deserto di pietre per raggiungere Aqaba a dorso di cammello. O l’ufficiale di sua Maestà, interpretato da Alec Guinness nel Ponte sul fiume Kwai, il quale viene rinchiuso in un atroce gabbiotto di lamiere, sotto il sole rovente, ma non concede mai la soddisfazione al suo aguzzino giapponese di mostrare la sofferenza al limite dell’umano.
In quei giorni, per me, Carlo era come Peter O’Toole e Alec Guinness, una sfinge che affronta il dolore con sguardo enigmatico. A dire il vero, a forza di fare film, di vedere film e di pensare ai film, Carlo era un concentrato vivente della storia del cinema. In lui convivevano l’umorismo italiano di Monicelli, suo maestro, ma anche quello dei suoi idoli viennesi, Lubitsch e Billy Wilder; era fiero come il protagonista di un western e talvolta bizzarro come un protagonista di Truffaut; il suo sorriso era un misto di malinconia alla Buster Keaton e di sfrenata allegria rubata alla risata contagiosa di Jerry Lewis; era chic e popolare; romantico e algido; era pensieroso come i personaggi in qualche film di Bergman, ma ritrovava al successivo giro di boa l’allegria riflessiva e mai sguaiata di Woody Allen. Era timido, quello sì, ma piangeva poco. E quando lo faceva, accadeva talvolta nel buio di una sala cinematografica. Carlo sapeva accettare le durezze della realtà ma non sopportava con la stessa forza quelle della finzione. D’altronde, per lui, la vita vera era il cinema. (…)
Carlo sorrideva perché era lui il più fiducioso.
IL MECCANISMO
Temo di dire una cosa banale. Ma questa sua fiducia è quella che s’insinua, credo inevitabilmente, nella mente di quasi tutte le persone che lottano contro il cancro. Forse è un meccanismo biologico. Pur di fronte all’evidenza del proprio decadimento fisico, malgrado la violenza del dolore, direi addirittura andando contro la propria intelligenza, il malato terminale usa come sua ultima difesa una rocciosa speranza. Si convince di poter guarire. E questo meccanismo, tutto sommato benefico, aiutò Carlo a trascorrere il tempo che gli rimaneva senza cadere nella disperazione.
Quella lo assalì soltanto nell’ultima settimana.
Nella sua stanza, nel corridoio antistante dove spesso si radunavano gli amici, sempre più numerosi, venuti a dargli il loro sostegno, si respirava l’aria rarefatta dei momenti decisivi di uno smarrimento collettivo. Arrivava qualcuno, a piccoli passi, spaventato, con gli occhi lucidi. Chiedeva informazioni recenti. Lottava contro l’emozione. Poi, facendosi forza, si armava di finta tranquillità, talvolta sfoderando un sorriso, e entrava a salutare Carlo. Pochi minuti, giusto il tempo per farsi vedere, ma soprattutto per vederlo. Poi, come un attore che esce di scena, liberandosi del suo personaggio e del fardello della finzione, l’amico abbandonava la stanza del dolore dando sfogo a tutta la sua emozione. Tutti uscivano piangendo. Tutti scappavano via dalla clinica inchiodati a quella immagine di Carlo sofferente.
Piangevo anche io. Ogni volta. A ogni amico che entrava e usciva. Piangevo per loro, per me, per Carlo. Erano le prove generali del suo addio finale.
Ma lui accettava questa messa in scena con assoluta incoscienza. Anzi, vedere gli amici serviva a farlo sentire incollato al presente. Penso che mio fratello non fu mai così vivo come in quei momenti. Se la godeva la vita. L’assaporava a piccoli morsi.
Credeva di guarire. Ci credeva con tutta la sua anima. Non sapendo che le sue cure oncologiche erano state sospese. (…)
IL PROTAGONISTA
Non fui presente a quella che fu l’ultima volta in cui mio fratello varcò la porta di casa. Senza sapere ancora che in quel luogo che amava tanto non sarebbe rientrato mai più. Immagino che salutò i suoi cani. Che li carezzò. Immagino che nella sua anima in subbuglio sentisse una grande confusione. Cosa intravedeva, intimamente, nei suoi giorni a venire?
Dopo la sua scomparsa, in casa di Carlo non ci sono tornato più neanche io. E non credo che riuscirò a farlo nemmeno in futuro. Per me, senza di lui, quel meraviglioso e ampio appartamento è diventato come la scenografia di un film finito. Una costruzione in cartapesta, rimasta in piedi nel vuoto di un teatro di posa, con le luci spente, avvolta da un silenzio inquietante. Senza più i riflettori accesi, senza una storia da mettere in scena, ma soprattutto senza il protagonista di quella storia, quel luogo magico dei ricordi veri della nostra vita insieme si è trasformato in un buco nero.
Nella fotografia, Alberto Sordi con i fratelli Vanzina: Carlo a sinistra, Enrico a destra sul set di «Un Americano a Roma», film del 1954 diretto dal padre Steno